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Le Radici Italiane di San Raimondo

 

P. Raimondo Sorgia O.P.

 

Son passati quattrocento anni dal 29 aprile del 1601, allorché Papa Clemente VIII inseriva nell’albo dei Santi della Chiesa cattolica Raimondo di Penyafort. E per questa data è parsa assai opportuna la pubblicazione della traduzione italiana della biografia del Santo scritta magistralmente da Fernando Valls Taberner. Raimondo di Penyafort occupa, infatti, un posto di straordinaria importanza nella storia della Chiesa e del diritto canonico, che forse non è adeguatamente conosciuta.

Papa Gregorio IX, affidando nel 1230 a San Raimondo l’incarico di provvedere a un’organica compilazione di testi legislativi, denominata successivamente Liber extravagantium Decretalium Gregorii IX, dava un pubblico riconoscimento a un uomo la cui vicenda spirituale e culturale era stata davvero esemplare: chierico diocesano, canonico e preposto della cattedrale di Barcellona, dottore in diritto all’università di Bologna, quindi domenicano, penitenziere e cappellano papale, autore della Summa juris canonici e della Summa poenitentiale.

La scienza del diritto canonico sorge, come è noto, con l’opera del monaco camaldolese Giovanni Graziano -la Concordantia discordantium canonum (chiamata in seguito Decretum Magistri Gratiani)-, e trovò in San Raimondo di Penyafort un grande diffusore e continuatore. Lo Jus canonicum, per quel che riguarda l’organizzazione scientifica della materia, si ispirava al modello della tradizione giuridica romana, -lo jus civile- ma volle giustamente mantenere la peculiare caratteristica d’essere una scienza teologica in quanto fondata sulla Rivelazione: in rapporto perciò con la sacra Scrittura, con la tradizione e il magistero ecclesiale. La connessione tra teologia e diritto canonico fu infatti al centro dell’investigazione e dello studio appassionato di San Raimondo. Egli, pur avendo ben chiara la distinzione che esiste tra le due materie, le considerava inseparabili; di conseguenza nella legislazione della Chiesa, nelle decretali pontificie e nei canoni dei Concili sia ecumenici, sia particolari, appariva una armonica compresenza di teologia e di diritto canonico; vi si trovavano, insieme, sia l’esposizione della dottrina sia le conseguenti applicazioni disciplinari, nella convinzione che i princìpi teologici comportino sempre certe regole di vita e che le norme canoniche abbiano sempre il proprio fondamento e interpretazione nella teologia.

Nell’epoca post-tridentina questa distinzione tra teologia e diritto canonico si fece sempre più marcata fino a presentare il rischio di una separazione. Il Codex juris canonici del 1917 si presentava come testo esclusivamente giuridico, con scarsi riferimenti d’ordine teologico, come dal canto loro i documenti del Vaticano II hanno assunto una valenza d’indirizzo teologico-pastorale con una considerevole riduzione dell’aspetto legislativo. Il Codex juris canonici del 1983 ha cercato di recuperare, in termini di una opportuna distinzione, l’indissolubile rapporto esistente tra teologia e diritto canonico. Rispetto a tale elemento fondamentale per la vita della Chiesa cattolica, ci viene in aiuto la personalità e l’opera di San Raimondo di Penyafort; in lui, in una maniera ammirevole, sono presenti, senza alcuna confusione, gli aspetti teologici, spirituali, pastorali, giuridici. Egli ci indica un metodo esistenziale, di studio e di ricerca unitaria e organica, proprio dell’esperienza medievale, da cui possiamo ancor oggi trar re grandi benefìci. E tutto ciò Raimondo lo andò appron- tando fin dagli anni della sua preparazione bolognese.

Questo, delle radici italiane di San Raimondo, è stato uno studio da me incominciato con la preziosa, indispensabile cooperazione di un insigne canonista nonché collaboratore nell’emittente da me diretta a Firenze (Sammarcoradio). Suo, ovviamente, il maggior merito, e perciò sua è stata la firma nell’omonima appendice entrata a far parte dell’edizione italiana della biografia approntata da Valls Taberner. E al fine di evitare ogni equivoco, aggiungerò qui che alcune delle nostre idee son passate nel brogliaccio che l’Editore ci richiese, da fornire al cardinal Biffi, arcivescovo di Bologna, sovraccarico come possiamo immaginarci di una gran mole di impegni, affinché potesse il più agevolmente possibile preparare il suo saggio introduttivo all’edizione italiana. (Ho voluto premettere ciò in ossequio a quell’amore per la verità che costituisce il lemma distintivo dell’Ordine dei Predicatori).

Anche nel caso del catalano Fra Raimondo di Penayfort, come del resto rispetto ad altri personaggi medievali, la datazione assai spesso non è suffragata da precisi documenti, e gli studiosi sono costretti a valersi di calcoli approssimati o di attestazioni inerenti altre figure coeve, che vissero in circostanze analoghe a quelle del personaggio principale. Ciò premesso, possiamo servirci di una precisazione resa dal medesimo Raimondo, d’essersi trasferito da Barcellona all’università bolognese al fine d’intraprendere i suoi studi (letteralmente: “vadens Bononiam ad studendum”) verso l’anno 1210; e ivi si iscrisse alla facoltà di diritto che, come del resto quella di Parigi, iniziava i corsi a settembre.

A questo punto ci pare opportuna una parentesi al fine di precisare meglio il nostro pensiero. Lo Studium di Bologna, fondato verso il 1089 da Irnerio, era nato come universitas scholarium, ossia come organismo corporativo di studenti che avevano il privilegio di scegliersi e di pagare i professori, stabilendo con i medesimi il piano di studi, l’orario delle lezioni e il periodo di vacanze. L’universitas eleggeva i propri capi, chiamati in un primo tempo consules, pià tardi rectores. Al suo interno gli studenti si raggruppavano per nationes e in seguito in universitas dei Citramontani e in universitas degli Ultramontani; in quest’ultima si distinguevano -come gruppo particolarmente numeroso- i catalani. Di questi “partiti” etnici comunque torneremo a parlare più oltre.

Pur essendo sorta nell’ambito dell’autonomia privata, l’università di Bologna suscitò interesse e apprezzamento sia da parte dell’autorità pontificia, sia di quella imperiale. Soprattutto i Papi, a iniziare da Innocenzo III, stabilirono di inviare allo Studium bononiense le collezioni di decretali pontificie, con l’obbligo che venissero “lette” nel senso di promulgate e commentate. Per tale motivo la scuola di Bologna sorta inizialmente per lo studio del diritto civile, attraverso la glossa, cioè il commento e l’esegesi testuale del Corpus giustinianeo, si estese al diritto della Chiesa, favorendo lo sviluppo della scientia juris canonici, e creando in tal modo quel grandioso fenomeno di raffronto e comparazione tra lo jus civile e quello canonicum, chiamato per ciò stesso anche jus commune. Proprio a Bologna nell’ambito dello Studium verso l’anno 1140 il camaldolese Giovanni Graziano aveva composto la sua Concordantia discordantium canonum, cui più volte abbiamo fatto o faremo riferimento.

Ebbene, tornando al nostro Santo, in quanto giurista egli nacque incontestabilmente in Italia; ma non vi è alcun motivo per recriminare alcunché perché il di Penyafort rimase quel catalano che era stato fino ad allora, mentre la personalità così apertamente sensibile e recettiva che aveva ricevuto da natura si andò arricchendo.

Oltre ai dettagli suddetti, che conosciamo indirettamente riguardo alla durata del corso che conduceva al dottorato, siamo fortunatamente in grado di saperne di più grazie al caso di un suo contemporaneo, studente anch’egli come San Raimondo a Bologna. Si tratta del vescovo Riccardo, che verrà posto a capo della diocesi di Chicester, in Inghilterra, che era giunto nella capitale emiliana per frequentare lui pure i corsi di diritto. Ebbene, da un suo storico veniamo a sapere che Riccardo restò nell’università bolognese per oltre sette anni. Possiamo dedurne che otto erano gli anni richiesti per giungere al dottorato in jus canonicum, precisamente al tempo del nostro Raimondo.

Avendo quest’ultimo iniziato nel settebre del 1210, dovette concludere il ciclo di apprendimento verso l’estate del 1218. E al pari del suddetto Riccardo, anch’egli giunse a essere dichiarato maestro in diritto canonico esattamente al termine degli otto anni regolamentari, incominciando nel contempo la propria esperienza di docente nel settembre di quello stesso anno.

A confermare questa ipotesi di datazione storica ci sono inoltre altri particolari. Verso la fine dell’aprile del 1218 Raimondo sottoscrive a Bologna un atto notarile assieme a altri tre testimoni; e nella lista il suo nome compare al primo posto: non avendo precisato di possedere il titolo di magister, possiamo concluderne che egli era alla vigilia dell’esame di laurea.

Se Raimondo giunse a essere maestro in diritto nel 1218, non fa meraviglia saperlo presto impegnato in certe questioni dell’ateneo bolognese e in particolare nella controversia che vide in opposizione la città di Bologna e la sua celebre università. Da certe lettere scritte da Onorio III nel maggio del 1220 apprendiamo che gli universitari avevano delegato la difesa dei propri interessi, tra altri, a un certo “R.” (come la lettera dell’alfabeto), classificato come doctor decretorum, individuabile per il neo-laureato Raimondo di Penyafort, che presto ritroveremo dedicarsi al disbrigo di una quantità di incarichi pontifici che gli verranno affidati. Se Raimondo si trasferì alla curia romana una prima volta nel maggio del 1220, non possiamo dubitare che egli avesse svolto il ruolo di docente nel precedente anno scolastico del 1219.

Un altro incarico, in qualche modo preliminare alle incombenze di cappellano e di penitenziere pontificio, gli venne dato sempre da Onorio III il 23 agosto del 1221, a proposito di uno studente professo dell’Ordine domenicano, che aveva chiesto di essere ridotto allo stato laicale. Circa queste prime, ripetute scelte che in quel periodo caddero su maestro Raimondo probabilmente non dovette essere estraneo lo stesso San Domenico di Guzmán, che conoscendolo aveva preso a stimarlo meritatamente. E l’anno appresso Raimondo entrava a far parte dell’Ordine fondato appena da San Domenico. Ce lo assicura quell’attendibile storico che fu il Padre Pierre Mandonnet.

Ci risulta che Fra Raimondo aveva lasciato Bologna nel 1221, e lo ritroviamo a Barcellona il 14 marzo del 1222; sappiamo che per un breve periodo avrebbe ricoperto un ipotetico ma finora non appieno dimostrato ruolo di canonico della cattedrale. In quel decennio trascorso all’estero, egli aveva appreso non soltanto la scienza dei canoni ma insieme la nascente lingua italiana che allora stava, possiamo dire, allo stadio embrionale; ma non passerà molto tempo e daccapo, attraversando di nuovo il mare o i Pirenei e le Alpi Marittime, San Raimondo nuovamente sarà in Italia, dove resterà per un ventennio, cioè fino alla primavera del 1240, allorché darà le dimissioni da Maestro dell’Ordine dei Predicatori. Perciò egli seppe di sicuro esprimersi non solo nel catalano natio e nel latino scolastico, ma anche in quell’idioma che attraverso i tentativi degli stilnovisti, nel giro di alcune decenni, sfocerà nella dolce lingua magistralmente adoprata da Dante Alighieri.

A Roma, come del resto nell’intero mondo cristiano, si doveva provvedere a organizzare nelle basiliche la celebrazione del sacramento della penitenza, avendo una particolare attenzione verso pellegrini che si recavano alla tomba degli Apostoli per devozione o per chiedere perdono di colpe gravi. Nel 1193 viene ricordato un Giovanni di San Paolo, cardinale di Santa Prisca qui confesiones pro Papa tunc recipiebat (ossia “che ascoltava le confessioni in rappresentanza e per conto del Sommo Pontefice”), anche se non sappiamo se egli fosse stato il primo a ricevere tale incarico, e di sicuro poteva disporre di coadiutori o penitenzieri minori.

Sotto il pontificato di Onorio III (1216-1227) disponiamo dei nomi di uno di questi associati o minori, così chiamati poiché il poenitentiarius maximus era sempre un cardinale cui competeva l’alta vigilanza e il controllo. Tra questi poenitentiarii minores ci furono vari fratres appartenenti all’Ordine cistercense. Papa Gregorio IX per la prima volta chiamò a quel servizio i Domenicani, e tra essi Fra Raimondo da Penyafort, che venne espressamente a Roma nel 1230, e anche alcuni Francescani. I penitenzieri pontifici, il cui numero fu di undici, appartenevano in gran parte a Ordini religiosi, e vennero assimilati a certi dignitari della corte papale come “cappellani”, ai familiares e ai notarii apostolici, a motivo delle questioni delicate e di fiducia che erano loro demandate. I penitenzieri pontifici, per uno speciale mandato del Papa, risolvevano problemi di coscienza (foro interno) di quanti si erano rivolti alla Sede apostolica.

A far rifulgere di luce propria il ruolo di poenitentiarius provvide il nostro Raimondo: egli aveva pubblicato di già la Summa de poenitentia, ragion per cui nessuno meglio di lui poteva essere chiamato a svolgerlo. Inoltre egli aveva acquisito un’ulteriore pratica assistendo il cardinal Sabinense nella sua legazione in terra di Spagna. E nella persona di San Raimondo, una volta reinserito nell’Urbe -come spiega opportunamente Valls Taberner- verrà a convergere l’altro titolo, di grande responsabilità e stima: quello di cappellano del Papa, il che veniva a confermare l’assoluta fiducia che nel giurista catalano riponeva il Sommo Pontefice: egli doveva deliberare accanto al Papa su questioni giuridiche di competenza della Cancelleria apostolica, si trattasse di conteziosi tra chierici e secolari, di questioni dinastiche, di problemi legati alla dispensa da certi impedimenti canonici di particolare rilevanza, o di altre faccende che i principi e i sovrani delegavano al Papa affinché esprimesse il proprio parere in assoluta autonomia. Venendo a essere trattate non in concistoro ma nella cappella pontificia, i consultori chiamati a esprimere il parere accanto al Papa ricevevano il titolo di cappellani pontifici, il che era qualcosa di molto più sostanziale che non un qualcosa di meramente onorifico, come poi accadrà con gli uditori della Sacra Rota.

Ci sembra giunto il momento di far qualche passo indietro (qualcosa di simile a una parentesi ma non di pura e semplice curiosità bensì al fine di puntualizzare meglio la questione di quelle corporazioni che nel Medioevo vennero chiamate universitates). Fu lì che il giovane Raimondo affondò e alimentò le sue radici di catalano e d’uomo di legge con cui è passato a pieno merito alla storia.

Gli inestimabili contenuti del kerigma evangelico erano stati affidati dagli inizi della nuova êra, provvidenzialmente, alla riflessione delle menti più eccelse che venivano a porsi al servizio del cristianesimo. Dapprima la ricerca fu personale, poi si estese a piccoli collegi di anacoreti e alle loro scuole, per ampliarsi quindi nei monasteri greci e latini, in cui lo studio del Vangelo diede luogo a la graduale produzione di quella multiforme disciplina che chiamiamo teologia cristiana. I monasteri infine si aprirono a un insegnamento in qualche modo pubblico, e dai secoli X-XI, nei luoghi più popolosi, si costituirono quelle embrionali corporazioni chiamate universitates a tutela della dottrina che lì veniva trasmessa sempre più lontano,in centri d’insegnamento minore o deputati alla formazione culturale del clero e, in certa misura per quei tempi abbastanza ridotta, alla catechesi del popolo di Dio.

Nasceva in questo modo la universitas (col significato che oggi diamo alle parole collegio, corporazione, raggruppamento), di coloro che nella Chiesa si dedicavano soprattutto all’insegnamento sia nel campo della teologia, sia in quello del diritto. Il primo era finalizzato all’analisi del pensiero cristiano incentrato sulla Rivelazione, il secondo a determinare, classificare e dare ordine all’abbondante congerie di norme che regolavano l’appartenenza alla Chiesa.

In Italia lo studio dello jus non si era spento mai del tutto, e fu soprattutto Bologna che raccolse la tradizione con un costante lavorio riversatosi nel Digestum di Giustiniano, fino a che il monaco Graziano non compilò il proprio Decretum che, come abbiamo ricordato più avanti, fu chiamato anche Concordantia discordantium canonum e che sostituì ogni altro precedente lavoro del genere. E fu ancora a Bologna che si esercitò la sagacia dei glossatori e degli espositori (o esegeti) -abbiamo sottolineato di già il ruolo preminente svolto da Irnerio e quindi da San Raimondo- che si preoccuparono di esporre le collazioni delle nuove leggi e decisioni pontificie, finché i medesimi Papi non promulgarono raccolte dichiarate autentiche e non risparmiarono energie affinché venissero prontamente inviate ai docenti (doctores) di Bologna, ché servissero loro come sussidio per l’insegnamento. Tale novità ebbe subito un grande successo, e nuovi studenti accorsero da ogni parte d’Italia e d’Europa; e gli stessi pensarono senza esitazione a raccogliersi in opportune associazioni. Ai primi del secolo XII vi primeggiavano gli scolares cives dei Tuscorum (oggi li chiameremmo toscani), dell’Urbe (romani e laziali), della Campania, (provenienti dal meridione d’Italia) e i Lombardorum (i settentrionali), mentre che gli Ultramontani eran divisi per lo meno in quattro altre societates: i Francigenae (francesi e normanni), i Provinciales, ossia della Provenza con gli Spani (spagnoli e catalani), e infine gli Anglici e i Germanici (inglesi e tedeschi). Ogni societas era guidata da un rector scholarium (il decano degli studenti), scelto regolarmente nella facoltà di diritto. Fu allora che il vocabolo primigenio di universitas giunse a essere sempre più ristretto e definito nel senso di universitas scholarium et magistrorum (l’insieme degli studenti e dei maestri), e quindi nel significato di un complesso di facoltà dottrinali tra sé interrelazionate, che è poi quello che è entrato nell’uso moderno.

Ebbene, fu in quell’ambiente di elevata cultura che verso il 1211 giunse dalla Spagna orientale Raimondo dei conti di Penyafort per iscriversi alla facoltà di diritto. Era, a quel che pare, un giovane canonico incardinato nella cattedrale di Barcellona e, come osserva Valls Taberner, “al fine di render possibile ai chierici più promettenti il perfezionamento negli studi, le chiese cattedrali di allora avevano l’usanza di destinare la rendita di opportune prebende per il mantenimento dello studente laddove si recasse ad approfondire i suoi studi”, anche se altri sostengono che Raimondo venne ammesso al capitolo barcellonese solo al suo rientro dall’Italia.

Lasciando agli studiosi il compito di risolvere questo mistero di secondaria importanza, noialtri ci sentiamo soddisfatti nell’immaginare la presenza del neo-giurista tarraconense nei chiostri e nelle aule dell’università bolognese, nel periodo che probabilmente cominciava verso il i220. In quel decennio ivi trascorso da Raimondo dapprima in veste di alunno volenteroso, quindi in quella di provetto docente nella medesima facoltà in cui aveva conseguito il titolo di doctor juris, anch’egli ebbe l’opportunità di arricchire l’ambiente universitario con l’innata ponderatezza del suo carattere, con la proverbiale saggezza catalana, la connessione tra doni di natura e soprannaturali; arricchendo sé stesso nel contempo con il gusto per il bello insito nell’animo italico, con la simpatia verso il temperamento bonaccione, allegro e sanamente sanguigno dei suoi condiscepoli emiliani; il che perfettamente assimilato (attraverso quella osmosi che si verifica nell’età giovanile) dal futuro giurista e consigliere di Papi, farà di lui una personalità traboccante di umanità e un individuo interamente aperto alla comprensione nei confronti dei propri simili. Di questo abbiamo una chiara dimostrazione nella sua futura opera di consultore tanto della nobiltà, quanto della gente comune (mercanti, artigiani, semplici salariati) nel corso dell’ultimo, lunghissimo lasso di tempo della sua vita terrena. Le “radici italiane” di San Raimondo non furono dunque un vago modo di dire, né si limitarono al fattore anagrafico relativo al suo ultradecennale trapianto in Italia, ma di sicuro assorbirono taluni valori tipici della generosa terra che gli diede ospitalità. Nelle ore di ricreazione anch’egli avrà avuto modo di assistere, o per le vie cittadine, o quanto meno nei cortili dell’ateneo, alla giocondità delle “maggiolate” o di altri svaghi studenteschi sul tipo delle “gnoccolate” di Guastalla (una festa al cui centro stanno le tipiche polpettine della zona), o avrà presenziato all’esecuzione delle “romanelle”, corrispondenti agli strambotti e agli stornelli di altre regioni italiane. Anche queste forme di cultura “minore” possono aver contribuito a integrare e ancor più ad arricchire la già notevole personalità del giovane giurista catalano. In una parola, non ci sembra improbabile sostenere che quella sua permanenza dapprima in terra emiliana, poi nell’Urbe, possa e anzi debba aver integrato il suo naturale temperamento con ulteriori dotazioni di altri popoli, in primo luogo l’Italia. Il che, ripeto, pare ampiamente confermato da quella singolare e superiore personalità di Raimondo che trabocca da tutte le sue opere, dal suo delicato e molteplice lavoro svolto a fianco dei Papi, nel corso della sua lunga, operosissima e instancabile esistenza.

Le interrelazioni con i numerosi alunni che da ogni Paese della cristianità venivano alla scuola giuridica bolognese, “avidi [secondo che scrive il Valls Taberner] di consacrarsi alla scienza del diritto” arricchirono Raimondo mediante l’assorbimento da parte sua dei diversi umori etnico-temperamentali che distinguono ciascuna nazione. L’abbondanza, certo, di studenti catalani accorsi a quella città universitaria del secolo XIII costituiva come abbiamo detto una delle più affermate corporazioni di studenti. Il cui insieme costituiva l’università. Ma la lingua che più di frequente risuonava sotto le volte dell’ateneo bolognese era, assieme al latino di prammatica, il nascente idioma italico che si andava formando a Firenze e dalla Tosacana si riversava nella confinante Emilia-Romagna. Abbiamo la certezza morale che di quella lingua tosco-emiliana l’ingegno sveglio di Raimondo dovette presto impadronirsi fino a sapersi esprimere (è chiaro, con la inconfondibile inflessione catalana) in un corretto italiano coi propri compagni e maestri, come minimo negli incontri informali e nelle ore di svago e di vacanza. E con la lingua, assimilò la cultura del paese. Sotto il nome di cultura intendiamo le forme colte, letterarie e, insieme, quelle più quotidiane del vivere concreto e giornaliero, che costituisce l’anima di un popolo e dei suoi antenati.

Quando Raimondo venne promosso al rango dei docenti, il suo magistero fu “così suggestivo che l’affluenza degli alunni attorno alla sua cattedra risultò presto numerosa”; e sempre il nostro Valls Taberner sottolineava come “desiderando assicurare la continuità d’insegnamento di un simile, eccellente maestro. [la popolazione studentesca] decise in piena autonomia di concedergli annualmente un buon sussidio economico, di cui San Raimondo mai trascurò di versare le decime, a titolo di offerta personale, al curato della parrocchia presso cui egli dimorava”. Ed è cosa certa che durante la sua permanenza scolare a Bologna e nel corso del suo lavoro universitario, San Raimondo dovette contrarre amicizie e rapporti con gente di spicco, alcune delle quali forse influirono sulle sue successive attività. Tra gli altri, ad esempio, si legò con amicizia a illustri trattatisti quali Accursio, Odofredo, Tancredi e Sinibaldo dei Fieschi. Attraverso il latino, l’italiano e il catalano (più tardi, durante la sua permanenza della Francia, vi si aggiunse la lingua gallica) la sua maniera di comunicare con gli altri esseri umani si arricchì considerevolmente, preparandolo a esplicare le variate funzioni che, nel corso di una settantina d’anni, andrà svolgendo a favore della Chiesa universale, della sua patria natia e di quella d’adozione che con tanto affetto lo aveva adottato.

In conclusione, le “radici giovanili” che Raimondo aveva affondato e alimentato in terra italiana, poi cominciarono a produrre fiori e frutti a beneficio della Chiesa intera. Conclusa la lunga parabola della sua quasi centenaria esistenza terrena, il ricordo ammirato per tante energie spese da quel singolare uomo che fu il di Penyafort non si spense ma, nel corso di quattrocento anni, lo condusse, come è noto, alla canonizzazione che ebbe luogo il 29 aprile del 1601. Specialmente in terra di Catalogna la memoria di San Raimondo, sia pure attraverso alti e bassi, restò perenne. Qui non abbiamo la possibilità di riassumere la parte conclusiva dell’interessante appendice che il presidente di studi giuridici, il Dr. José M: Mas i Solench, appose all’edizione castigliana del saggio di Valls Taberner. Diremo solo che il 1946 fu un anno particolare in cui l’avvocatura spagnola si pose sotto il patrocinio del Santo di Penyafort, e poi da quando nel 1982 un decreto reale ribadiva tale decisione, sempre più numerosi sono stati i colleghi del tarragonense che commemorano il 7 gennaio la sua festività patronale. Frattanto l’apprezzamento che in Italia è stato nutrito per la figura e l’opera di San Raimondo da Penyafort veniva attestato da un’abbondante iconografia, della quali ci limiteremo a segnalare soltanto l’affresco del secolo XIV che Tommaso da Modena fece nell’antico convento dei Domenicani a Treviso: le quattro effigi del Santo che esistono nella mia città di Firenze, nel museo e nel convento di San Marco: la prima del Beato Angelico (secolo XV), nella sala capitolare; l’altro affresco di Ignoto (secolo XIV) ma attribuito in passato a Fra Bartolomeo della porta, e infine, sempre nella nostra basilica domenicana, la pittura di stile musivo del secolo XVI; sempre a Firenze, in Santa Maria Novella, si trova la pregevole tela di Jacopo Ligozzi rappresentante San Raimondo che risana un fanciullo. A Bologna invece si conserva un affresco raimondiano di Ludovico Carracci, della fine del secolo XVI: nelle Stanze Vaticane, a Roma, si può ammirare il quadro che Raffaello Sanzio dedicò al Santo giurista catalano (secolo XVI); a Fontanellato, nella chiesa dei Predicatori vi è un affresco di Raimondo, di Anonimo (secolo indeterminato); nella chiesa dei Domenicani di Chieri altra sua immagine è ancora di Anonimo, del secolo XVII; della fine del secolo scorso è invece la tela di Ignoto, probabilmente francese, dell’università di San Tommaso d’Aquino, a Roma; e infine, opera di vari autori, nel santuario di Sant’Antonio a Posillipo (Napoli), attualmente dei Domenicani, si trova un affresco dei pittori Terlizzi e Sansone (secolo XX).

Anche in terra italiana si è lavorato per estendere una ancor più profonda conoscenza, un sentito interessamento, uno studio più radicato e infine un particolare culto verso San Raimondo attraverso l’impianto di un’associazione toscana collegata coi devoti e gli amici di San Raimondo con sede a Barcellona. La consociazione toscana si ripropone la finalità, nell’àmbito della regione ecclesiastica, ripetiamo, di promuovere la devozione verso San Raimondo e di contribuire alla formazione culturale, morale e religiosa dei canonisti, mentre potrebbero far parte dell’associazione in particolare tutti coloro che siano domiciliati in una delle chiese particolari della Toscana e siano o dottori o almeno licenziati in diritto canonico. Promotore e presidente dell’Associazione italiana sarà l’amico don Andrea Origani, vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico regionale etrusco e del tribunale diocesano di Firenze. E’ insomma una maniera di restituire, anche se solo in minima parte, l’immenso bene (fatto di dottrina, di virtù cristiane e di esempi d’un animo nobile) che quel grandissimo uomo che fu San Raimondo, otto secoli fa trapiantato tra di noi italiani, ha lasciato a tutti i credenti di qualsiasi tempo e di ogni parte del mondo.

Catalogna e Italia, dunque, si ritrovano ancora unite, su diversi piani, come terreno in cui Raimondo di Penyafort nacque, studiò, operò santificando sé stesso e lasciando alla Chiesa di ogni tempo una viva eredità che continua a fruttificare feconda.