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In Margine a un Giudizio di Cervantes:
Note sulla Pazzia Ariostesca*

 

Pedro Garcez Ghirardi
Univ. de São Paulo

 

Dirò d'Orlando in un medesmo tratto
Cosa non detta in prosa mai, né in rima,
Che per amor venne in furore e matto
D' uom che sí saggio era stimato prima
(Orlando Furioso , I, 2)

el cristiano poeta Ludovico Ariosto
(Don Quijote, I, 6)

            Se l'equilibrio viene spesso ricordato tra le note distintive della cultura rinascimentale, come spiegare che colui che di tale cultura è uno de massimi rappresentanti, l'Ariosto, proclami invece la pazzia come grande novità del suo poema? La pazzia, e per di più pazzia furiosa, cioè lo squilibrio estremo : "in furore e matto", così ci viene descritto il folle Orlando.

            Si suole additare, a proposito di tale "furore", il precedente di Seneca e del suo Hercules furens. Ma con ciò si sposta, non si risolve il problema. Infatti qui non tanto si tratta d'identificare eventuali precedenti della pazzia ariostesca, ma piuttosto di capire perché, tra le molte possibili strade apertegli da tali precedenti, l'Ariosto, proprio in pieno Rinascimento, ossia in un momento di apparente trionfo del logos, scelga quella paradossale della pazzia come grande novità da cantare.

            Un avvio alla risposta suporrebbe, prima di tutto, una più precisa definizione del cosiddetto equilibrio rinascimentale. Per limitarci all'argomento che ora c'interessa, sarebbe opportuno domandarsi se tale equilibrio comporti la necessaria negazione o esclusione della pazzia. O se invece la presenza della pazzia deva ritenersi componente di un equilibrio che, in quanto tale, dever risultare da un insieme di forze contrarie. Nel caso specifico dell'Orlando Furioso, poi, si dovrebbe rilevare che la pazzia ariostesca va riallacciata non solo a dei modelli classici, ma bensì ad istanze dell'Umanesimo, particolarmente dell'Umanesimo cristiano.

            L'affermazione non dovrebbe destare sorpresa, nonostante il caratterisco atteggiamento del poeta, detto dai critici "sorriso arriostesco", che non risparmia certo il sacro (si pensi soltanto al vecchio San Giovanni Evangelista che fa da guida ad Astolfo lungo i sentieri della luna). Eppure, l'importanza fondamentale dell' Umanesimo cristiano nell'Orlando Furioso era forse nota a uno dei più autorevoli lettori del poema. Infatti, è Cervantes a giudicare il creatore della pazzia d'Orlando "el cristiano poeta Ludovico Ariosto".

            Questo giudizio ha destato perplessità ed è stato spiegato in diverse maniere. Nessuna di queste spiegazioni (che in genere cercano di dare all'aggettivo "cristiano" un senso più o meno vago) può dirsi del tutto persuasiva1. Ciò che forse non è stato sufficientemente considerato è che Cervantes abbia voluto alludere all'Ariosto come poeta cristiano principalmente per aver identificato come cristiane le radici della pazzia dell'Orlando Furioso.

            Non è possibile in questa sede sviluppare pienamente i motivi che fanno pensare a questa ipotesi sulle origini della pazzia ariostesca. Basti ricordare che l'immagine del messaggio cristiano come pazzia, opposta ai greci, cioè, al loro logos, è addirittura paolina2. Sulla scia di quanto avveniva nella tradizione veterotestamentaria (si ricordino espressioni come "stoltezza", con riferimento agli empi), sin dall'inizio del Cristianesimo, quindi, la questione della pazzia sembra porsi innazitutto sul piano delle fede, come male che ha conseguenze morali e poi anche intellettuali. Ecco perché nell'ascesi cristiana termini come "menzogna", "errore", "vanità" e simili sono spesso associati alla discussione della pazzia.

            Sarebbe interessante seguire le vicende di tale concezione di pazzia fino al pensiero dell'Umanesimo. Adesso, però, si può fare soltanto riferimento a qualche pagina del Petrarca, i cui rapporti con l'Ariosto, sotto l'aspetto della riflessione sulla pazzia, sembrano ancora inesplorati, o quasi. E non ci si sofferma qui sulla poesia petrarchesca, che pure potrebbe offrire spunti notevoli. Si pensi, per fare un esempio, agli ultimi versi di Italia mia, a quell' opposizione tra virtù e furore che sarà ripresa dal Machiavelli. Ma in questo momento forse è più opportuno rileggere alcuni passi del Petrarca latino, specificamente del Secretum, tutto dedicato alla discussione dei fuorviamenti ai quali può condurre la logica mondana.

            Nelle pagine del Secretum, ispirato, come si sa, dalle Confessiones agostiniane, Francesco stabilisce un dialogo appunto con Agostino. Questi oppone alla logica mondana di Francesco, la saggezza evangelica. Si contrappone, cioè, alla "pazzia falsa", pagana, la "pazzia cristiana", quella che potremmo a questo punto chiamare pazzia ispirata dalla verità. E infatti, nel Secretum, la figura della Verità riunisce gli interlocutori, ne promuove ed ascolta il dialogo. Le voci dialoganti sono ricondicubili, come è stato molte volte rilevato, allo stesso Petrarca: Francesco è appunto il suo nome; Agostino è il nome degli ideali più alti di chi cantava "i' veggio il meglio, ed al peggior m'appiglio".

            Ebbene, non c'è quasi pagina del Secretum, sin dalle prime parole, che non sia riconducibile alla questione della pazzia, nel senso al quale si è accennato, cioè, di malattia non solo intellettuale, ma morale. Il dialogo petrarchesco si apre, infatti, quando la Verità, impietosita dagli errori di Francesco - "Errores tuos miserata", dice3 - chiede ad Agostino di aiutarlo a guarire dalla lunga e pericolosa malattia - "periculosa et longa aegritudine"4. La via della guarigione sarà un processo di scoperta di manchevolezze che, come dice Francesco, non sono soltanto sue, ma dell'umanità, in genere: "Ubi multa licet adversus seculi nostri mores, deque comunibus mortalium piaculis dicta sint, ut non tam michi, quam toti humano generi fieri convitium videretur"5.

            Si stabilisce, quindi, nel Secretum, un dialogo tra pazzia-ragione e pazzia-fede o, se si vuole, tra due ragioni e due pazzie, che s'interpellano a vicenda, in presenza della Verità. La pazzia-ragione, paradossalmente, ha delle buone ragioni, mentre le ragioni della pazzia-fede le sembrano folli. Insomma, tra Agostino e Francesco si riesce a sapere chi è pazzo soltanto perché, sin dall'inizio, è presente la Verità (la verità della fede cristiana, ovviamente). In altre parole, solo la fede poteva sanare l'intimo dissidio di colui che è giustamente onorato come primo umanista.

            Sorprende un po' che a tutto questo la critica ariostesca abbia dato scarsissima attenzione, mentre il Secretum deve essere stato tra i primi libri letti dall'Ariosto. Non è il caso di ricordare che il futuro poeta del Furioso fu avviato agli studi umanistici da un carissimo maestro, l'erudito Gregorio da Spoleto, monaco agostiniano. Si ricordi poi che in un ambiente pure segnato sia dalla spiritualità agostiniana, sia dal pensiero umanistico del Petrarca e dei suoi discepoli nasce l' erasmiano Moriae encomium.

             Dal Petrarca, dunque, sarà partito anche l'Ariosto, e specialmente da questo dialogo tra pazzia mondana e pazzia cristiana. Nel Furioso questo dialogo è centrale quanto nel Secretum, ma con un'importante differenza. Contrariamente a quanto avviene nel trattato del Petrarca, dove è sempre visibilmente presente, quasi arbitra, la Verità, nel Furioso, anche se raggiungibile, la verità non è sin dall'inizio evidente. Anzi, l'Ariosto sembra "sorrida" anche davanti a quell' immagine petrarchesca. Si ricordi che la Verità del Secretum alludeva all'epopea latina del Petrarca, l'Africa, dove l'autore la immaginava abitante uno splendido palazzo, sui monti Atlanti: "in extremo quidem occidentis summoque Atlantis vertice habitationem clarissimam atque pulcerrimam mirabili artificio ac poeticis, ut proprie dicam, manibus erexisti"6. L'Ariosto invece, come è noto, riprendendo il Boiardo, ci mostra su quei monti, non la Verità, ma un altro abitatore, il mago Atlante, maestro d'illusioni e costruttore di un palazzo di "figmento"7. C'è di più: si ricordi che la saggia e virtuosa Logistilla, creatura ariostesca il cui nome sembra derivato da logos, è sorella di Alcina, la strega della falsità8. La ragione sorella della pazzia... Nel Furioso, quindi, ragione e pazzia, oppure, come preferiva l'Ariosto, senno e pazzia sono sempre a contatto. La verità è, quindi, tutt'altro che facile da identificare.

            Il non tenerne conto può condurre a travisare l'Ariosto, ciò che accade a volta a lettori anche illustri che, come il buon Omero, sonnecchiano. Pare sia questo il caso del Lessing, quando, in una famosa pagina, scrive che il poeta, nella minuta descrizione dell'affascinante figura della maga Alcina, non è riuscito a darci la visione della vera bellezza9. Eppure, era ben altro ciò che pretendeva l'Ariosto. Soffermandosi sui particolari dell'apparenza di Alcina, a parte la nota ironia sull' uso dei belletti (che riprende anche nei primi versi del canto successivo), e a parte la diffusa ironia rinascimentale sul canone estetico bembesco (si ricordino i sonetti del Berni), ciò che l'Ariosto voleva farci vedere è esattamente il contrario della vera bellezza. In Alcina, ci si mostra la bellezza falsa, posticcia, di una scaltrissima seduttrice. La vera visione di Alcina il poeta ce la da altrove, in ottave sfuggite al critico illustre, che pare abbia letto l'Ariosto in un'antologia. Sono quelle che ci mostrano Ruggero, amante ormai disingannato, che

                        ritruova, contro ogni sua stima, invece

                        de la bella, che dianzi avea lasciata,

                        donna sí laida, che la terra tutta

                        né la più vecchia avea né la più brutta.10

            La verità nel Furioso, quindi, non suole svelarsi subito (e l'autore di Nathan, il sapiente si sarebbe forse sentito vicino all'Ariosto, se se ne fosse accorto). E, dunque, neanche la vera pazzia e la vera ragione. Anzi, la reversibilità tra le ragioni della pazzia e le pazzie della ragione è centrale per la comprensione del poema ariostesco (non per nulla l'episodio dell'impazzimento d'Orlando ne occupa, anche matematicamente, il canto centrale). Venute dalla rigida gerarchia del mondo cavalleresco, ma ormai sciolte, dal "sorriso" del poeta, che le ha liberate dalle strutture del pensiero medioevale, le figure ariostesche possono sembrare folli e nient'altro a uno sguardo frettoloso. "Corbellerie", infatti, pare le abbia definite l'ottuso cardinal d'Este. E invece la pazzia di queste figure, in quanto corrispondenti a una "verità" storicamente estinta, è ciò che le rende significative di quanto c'è di pazzo nelle pretese assolutistiche della ragione, in qualsiasi momento storico. "Libérée de la sagesse et des leçons qui l'ordonnaient - dice giustamente Foucault - l'image commence à graviter autor de sa propre folie" 11 (p. 31). È appunto ciò che accade nell'Orlando Furioso, dove le medievali immagini cavalleresche, liberate dal "sorriso ariostesco", cominciano a esplorare l'universo con il loro folle e assennatissimo girovagare.

            Non occorre, dunque, aspettare la letteratura del Seicento per trovare una pazzia che è, al tempo stesso, "absence de sérieux" e "essentielle"12. È questa, appunto, la pazzia dell'Orlando Furioso. Né occorre aggiungere che lo studio delle figure mostruose o della Narrenschiff come immagini di pazzia avrebbero acquistato, in Foucault, orizzonti molto più vasti se lo studioso avesse avuto in mente gli episodi del poema ariostesco. Pensiamo, per esempio, a quello della lotta tra Astolfo e l' "iniqua frotta" dai "mostruosi volti", che lo attacca mentre cerca di passare dal regno di Alcina a quello di Logistilla13. O pensiamo, per evocare il simbolo del foucaultiano albero "déraciné"14, ad Orlando furente che "un alto pino al primo crollo svelse" e che

                        ...svelse dopo il primo altri parecchi,

                        come fosser finocchi, ebuli o aneti;

                        di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti.

                        Quel ch'un uccellator che s'apparecchi

                        Il campo mondo fa, per por le reti,

                        Dei giunchi e delle stoppie e de l'urtiche,

                        Facea dei cerri e d'altre piante antiche. 15

            O, per aggiungere ancora un esempio, pensiamo ad immagini come quella della nave, che il poeta teme resti "a errar sempre", esattamente come una stultifera navis. Vale la pena, anzi, rileggere quest'ottava del canto finale:

                        Or, se mi mostra la mia carta il vero

                        Non è lontano a discoprirsi il porto

                        Sì che nel lito i voti scioglier spero

                        A chi nel mar per tanta via m'ha scorto;

                        Ove, o di non tornar col legno intero,

                        O d'errar sempre ebbi già il viso smorto.

                        Ma mi par di vedere, ma veggo certo,

                        Veggo la terra, e veggo il lito aperto.16

            Il poeta-navigatore ha con sé la "carta" che dovrebbe condurlo al sicuro "porto", eppure, finché non lo raggiunge, non è completamente sicuro che la guida gli mostri "il vero". Cioè, l'affidamento agli argomenti della ragione (la "carta", appunto) non è mai completo, perché c'è sempre il dubbio che la guida possa sbagliare e lasciare in preda alla pazzia, all' "errar sempre". Anche perché il poeta ci dava, sin dall'inizio del Furioso, l'indimenticabile monito: "Ecco il giudizio uman come spesso erra!"17. La fede in qualche modo può spuntare, in quanto fede umana, in quanto fiducia negli amici che hanno "scorto" il poeta durante il lungo viaggio. Ma, come si è appena visto, tale fede non riesce a placare completamente le incertezze del viaggiatore.

            Il giudizio umano erra spesso, dunque, soprattutto quando s'interrompe l'essenziale dialogo tra gli opposti, eppur vicini, interlocutori. Ecco perché impazzisce il prode Orlando, innamorato fedelissimo, il quale vede soltanto le ottime ragioni che lo fanno meritevole dell'amore di Angelica, mentre non riesce a vedere le ottime ragioni che ha pure la "pazzia" di Angelica quando le consiglia di preferire invece il giovane ed avvenente Medoro.

            Insomma, mentre anche noi dobbiamo girovagare per "tanta via", le alterne voci della ragione e della pazzia ci accompagnano sempre. La verità, "il vero", può anche coincidere con quanto mostra "la carta" e con quanto ci fa sperare l'appoggio degli amici, però sarà riconosciuta come tale soltanto all'arrivo e non, come nel Secretum petrarchesco, già in partenza. Ed ecco che qui l'Ariosto si avvicina, sì, a tutta la cultura rinascimentale, a quella che dalla machiavelliana "verità effettuale" arriverà alla scienza sperimentale di Galileo, ma si avvicina anche ad alcune istanze della mistica del Cinquecento (pensiamo alla "noche oscura" di Juan de la Cruz).

            Lungo tutto il Furioso, dunque, si fanno sentire, in permanente dialogo, le voci della pazzia e della ragione (o del senno, per dirla con l'Ariosto). Dialogo che riflette ciò che avviene all'interno di ognuno. Infatti, si ricordi il celeberrimo episodio di Astolfo sulla luna. Il cavaliere vi trova tutte le cose perdute dagli abitanti della terra, a cominciare dal senno, perché

                        Di sofisti e d'astrologhi raccolto,

                        E di poeti ancor  ve n'era molto. 18

            Eppure, qualcosa vi è introvabile:

                         Sol la pazzia non v'è poca né assai;

                        Che sta quaggiù, né se ne parte mai. 19

            La pazzia quaggiù sta di casa, quindi, anche tra gli uomini cosiddetti assennati, ossia, è sempre coinquilina della ragione. Anzi, la loro convivenza è possibile solo perché entrambe le interlocutrici accettano di intrattenersi in civile dialogo, mentre ognuno di noi procede, come i lodati "cavalieri antichi", per "selve oscure e calli obliqui". Ma rileggiamo, per finire, questo stupendo passo che ci mostra due cavalieri, separati dall'amore e dalla fede, mentre lasciano il "ragionevole" duello per seguire, sullo stesso cavallo, le orme della donna che li rende "pazzi":

                        O gran bontà dei cavallieri antichi.!

                        Eran rivali, eran di fe' diversi,

                        E si sentian degli colpi iniqui

                        Per tutta la persona anco dolersi;

                        E pur per selve oscure e calli obliqui

                        Insieme van, senza sospetto aversi.20

            Forse non si può trovare esempio più chiaro di quelle immagine liberatesi dall'organizzazione della saggezza, di cui parlava Foucault. Appunto come i due cavalieri, ragione e pazzia, nel poema ariostesco, "per selve oscure e calli obliqui / insieme van, senza sospetto aversi". In altre parole, il senno ariostesco, come si è detto, non è affatto negazione del "rivale", del "diverso", del "pazzo", insomma. Anzi, necessariamente lo include.

            E a questo punto si potrebbe ritornare a Cervantes, per sviluppare un altro suggerimento che ci da il suo giudizio sull'Ariosto. Ossia, che il "sorriso ariostesco", come espressione di un dialogo reso possibile dall' accettazione del diverso, sembra sorprendentemente vicino ad alcuni aspetti del messaggio cristiano, in quanto ribalmento della ragione mondana ed inclusione di emarginati (si pensi alla parabola del banchetto nuziale). Ma sviluppare questi spunti sarà forse per un altro momento.

            In conclusione, mentre ci fa vedere le vicende del dialogo tra senno e pazzia nella vita dei suoi personaggi, Ariosto ci parla degli inganni e disinganni della vita di ognuno di noi. Il famoso "sorriso ariostesco" e l'universalità che ne deriva alle sue "donne e cavallier" scaturiscono proprio dall'instabile equilibrio della condizione umana, sempre rivolta alla ricerca di un senso, che tante volte crede di trovare in ideali effimeri, dai tempi successi ritenuti poi pazzie. Così, nel nostro mondo post-moderno, il crollo di tante certezze e il bisogno sempre più pressante di convivere con ogni tipo di diversità, fa sì che le "corbellerie" del capolavoro ariostesco siano quanto mai piene di saggezza e ci siano quanto mai care e vicine.

Note

(*) Si presenta un riassunto di alcune pagine di uno studio sull'Ariosto, di prossima pubblicazione in Brasile. I canti dell'Orlando Furioso, qui citato semplicemente come OF, sono indicati dal numero romano; le ottave, dal numero arabo.

(1) cfr. Maurice Chevalier, L'Arioste en Espagne (1530-1650). Bordeaux, Institut d'Études Ibériques et Ibéro-Américaines de l'Université de Bordeaux, 1966, specialmente p. 447-8.

(2) cfr. 1 Cor., I, 23.

(3) Petrarca, Secretum, "Prohemium". Ed. citata: Secretum, a cura di Enzo Fenzi, Milano, Mursia, 1992, p. 94

(4) op. cit., p. 96.

(5) op. cit, p. 98.

(6) op. cit., p. 94

(7) OF, IV, 20.

(8) OF, VI, 45.

(9) cfr. Laookoon, XX.

(10) OF, VII, 72.

(11) Michel Foucault, Histoire de la Folie, Paris, Union Générale d'Éditions, 1964, p.31.

(12) id., op. cit., p. 47.

(13) OF, VI, 60 e segg.

(14) Foucault, op. cit., p. 35.

(15) OF, XXXIII, 134-5.

(16) OF, XLVI, 1.

(17) OF, I, 7.

(18) OF, XXXIV, 85.

(19) OF, XXXIV,81.

(20) OF, I, 22.